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Comprare non ci rende felici

2019-12-05 13:30

Paolo Francesco Reitano

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Comprare non ci rende felici

Nel ventunesimo secolo sono parecchi i dubbi su cui è necessario interrogarsi, soprattutto se si tratta di concetti legati all’azione diretta dell

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Nel ventunesimo secolo sono parecchi i dubbi su cui è necessario interrogarsi, soprattutto se si tratta di concetti legati all’azione diretta dell’essere umano. Il meccanismo di scelta diventa necessario, soprattutto se l’effetto della nostra decisione ha carattere mondiale.


Etica e consumismo sono conciliabili?


La risposta è di difficile intuizione: dovremmo essere capaci anche soltanto di definire il concetto di etica e di capire con che elementi è possibile ponderarlo, specie se si analizza nel contesto di mercato dei beni.


Un elemento non indifferente, però, possono darlo i dati, soprattutto nella comprensione del comportamento dei consumatori. Il rapporto del Worldwatch Institute del 2008 ci indica che la popolazione cresce a un fattore molto ridotto rispetto al volume della crescita del consumo. Dato per certo, comunque, che non tutti i prodotti prodotti vengano poi acquistati, e che quindi una parte della produzione resti invenduta, il rapporto aumenta. Poco più di dieci anni fa, quindi, sono stati acquistati quasi 70 milioni di veicoli, 85 milioni di frigoriferi, 297 milioni di personal computer e più di un miliardo di telefoni cellulari, e se la popolazione ha avuto un suo tasso di crescita, la spesa pro capite in beni di consumo ha quasi raggiunto il triplo, in proporzione.


L’attribuzione dell’aumento di consumo in termine di crescita demografica, quindi, sarebbe un errore, o meglio, un aggravante.


Proviamo ad immaginare una motivazione che spinga il consumatore ad acquistare più beni.


Necessità? Sfizio? Status?


Probabilmente, ognuna di queste tre risposte ha un fondo di verità, ma la motivazione più solida, probabilmente, sta nell’aumento della tecnologia. La produttività dei fattori è aumentata a dismisura: nella nostra epoca storica stiamo vivendo perpetue e piccole rivoluzioni industriali, mentre prima un adeguamento della tecnologia necessitava parecchi anni.


L’aumento della tecnologia potrebbe essere interpretato come un elemento positivo, sebbene porti ad un incremento quasi incontrollato della domanda di beni, e quindi della produzione.


Produciamo più di quanto abbiamo bisogno, ma ancor peggio consumiamo più di quanto abbiamo bisogno.


Mauro Corona, nel suo libro “I fantasmi di pietra”, edito da Mondadori, già tredici anni fa ci suggeriva il verbo simbolo del terzo millennio: “rottamare”.


Da questo verbo possiamo giungere alla conclusione degli effetti di un aumento della produttività dei fattori: la crescita della tecnologia porta l’obsolescenza tecnica. L’oggetto, sebbene ancora funzionante, diventa obsoleto.


E’ così che un telefono del 2010, seppur perfettamente funzionante, diventa inutile: non ha accesso a nessun App Store o Play Store, non può installare applicazioni afferenti ai principali social network, non può scattare fotografie in alta qualità o girare video in Full HD e, soprattutto, non può comunicare tramite Whatsapp, applicazione di messaggistica instantanea divenuta il determinante fondamentale dell’utilizzo dei nostri telefoni cellulari, ormai divenuti Smartphone.


Allo stesso modo lo sono diventati gli altri beni: l’auto a benzina o a gasolio rispetto all’ibrido [sebbene la sostituzione definitiva avverrà nei prossimi anni], i personal computer o gli elettrodomestici.


Quindi, il consumatore non acquista soltanto quando ne ha la necessità. Di fatto, un oggetto perfettamente funzionante e utilizzabile risponderebbe al bisogno del consumatore, ma non sarebbe capace a pieno di apportarne utilità. P. Underhill, nel libro “Shopping Mania”, afferma che l’economia rischierebbe il collasso se i soggetti acquistassero beni solamente quando ne hanno realmente bisogno. Il testo affronta un altro tipo di problema: la possibilità di acquistare sempre, in ogni momento.


Il mercato, decenni fa, aveva meccanismi molto diversi e non era sempre accessibile. Tramite lo shopping online, invece, abbiamo la possibilità di acquistare senza alcun limite, e con costi di transazione quasi nulli.


E possiamo farlo per qualsiasi tipo di bene: dall’abbigliamento alla telefonia mobile, dall’elettronica ai libri, dagli strumenti musicali al cibo, prendendo l’esempio delle moderne piattaforme di consegna a domicilio, come Just Eat o Deliveroo.


Elementi che spingono gli individui solamente ad un incremento incontrollato e, talvolta pericoloso, della loro propensione al consumo. Consumare, però, rende felici?


Abbiamo bisogno di essere soddisfatti dagli acquisti?


Nel libro “Homo consumens”, lo scrittore Z. Bauman dona una visione chiara del problema: l’acquisto non ci rende felici, e nemmeno soddisfatti.


La spesa continua non provoca altro che una ricerca incessante e, quindi, interminabile, di uno stato di soddisfazione effimero, che termina in pochissimo tempo. Questo ci rende insaziabili e, soprattutto, tesi a desiderare sempre di più. La cultura del consumismo, d’altro canto, cerca di aumentare questo desiderio: si basa sul “chiedi e ti sarà dato”, a dimostrazione che le imprese, nel breve termine, offriranno sempre quanto il consumatore domanda, anche se non potranno farlo.


Vedete?


E’ così semplice, d’altronde, decantare i peggiori valori per affermare il pensiero che produrre sia sempre meglio. E la produzione porta sempre al consumo.


Il prodotto appena acquistato, quindi, diventa per il consumatore motivo di vanto: prima oggetto del desiderio, adesso ragione di appartenenza. Basti pensare alla disputa eterna tra Android e iPhone, che spacca in due il mercato aggregato degli smartphone. L’oggetto non ha più lo scopo di portare utilità, quello diventa quasi secondario: diventa simbolo per la persona che lo possiede.


Dalle nostre scarpe al bomber che indossiamo, dal modello della nostra auto alle potenzialità del nostro cellulare, sino al nostro immobile, che sia una casa indipendente o un appartamento, un monovano o una villa in periferia, tutto assume carattere distintivo tra gli esseri umani, che rendono il bene una sorta di “medaglietta” per chi lo “indossa”.


E’ necessario, quindi, riflettere sulla piega che ha preso la nostra deriva consumistica. Chiederci, soprattutto, se esista e come una modalità per cambiare il mercato verso azioni etiche dei soggetti, per limitare gli effetti negativi. Alcuni passi avanti sono stati fatti, specie dai governi più oculati, con azioni che mirano a moderare i fallimenti del mercato. Il passo avanti, ora, deve farlo il consumatore, ricercando nelle piccole azioni economiche personali la ragione, al fine di trovare ciò che manca: la consapevolezza.