La Sicilia è la regione con il più alto numero di NEET in Italia. A dirlo è l’Istat, che ad inizio anno ha presentato a Palermo il rapporto “I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza" contenente i nuovi dati che confermano le difficoltà dei nostri giovani nel passaggio dalla scuola al mondo del lavoro.
Secondo l’ultima rilevazione, è del 16,1% la media nazionale dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni non impegnati né in un percorso di istruzione, né in un’attività lavorativa o formativa. Sono appunto dei NEET (Not in Education, Employment or Training). Un dato che invita a far riflettere, considerando che la media UE si attesta all’11,2%. Ma se analizziamo la Sicilia, la percentuale è ancora più elevata, con il 27,9%. In pratica 11,8 punti in più rispetto alla media nazionale.
Il divario con il resto d’Europa rimane dunque significativo. Germania, Paesi Bassi e Danimarca registrano i tassi più bassi, con meno del 7% di NEET. Francia e Regno Unito si avvicinano alla media europea, con percentuali rispettivamente del 10,2% e dell’11%.
Quali potrebbero essere le cause di questi dati?
Perché nonostante una notevole ripresa economica dell’Italia, c’è ancora in Sicilia un problema di disoccupazione e di disimpegno nella formazione?
Una motivazione potrebbe risiedere nell’incapacità del nostro Paese di integrare rapidamente i giovani nel mondo del lavoro, con un sistema educativo più orientato verso la teoria piuttosto che alla formazione pratica e a un mercato del lavoro più dinamico. Molte competenze acquisite nei percorsi formativi non trovano infatti riscontro nelle esigenze delle imprese, creando difficoltà di inserimento per i giovani laureati e diplomati.
A questo si aggiunge la scarsa diffusione dell’apprendistato e dell’alternanza scuola-lavoro, strumenti che in altri Paesi hanno dimostrato di facilitare il passaggio dalla formazione all’impiego. Il modello tedesco, ad esempio, punta su un sistema duale che integra studio e lavoro già nei percorsi scolastici, riducendo così il tasso di disoccupazione giovanile.
Un altro fattore critico è la rigidità del mercato del lavoro italiano, che penalizza chi cerca il primo impiego. Rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia offre meno opportunità di accesso graduale al mondo del lavoro, con poche esperienze lavorative per studenti e neolaureati e una prevalenza di contratti precari che non garantiscono stabilità a lungo termine
Ma l’analisi dell’Istat mette in luce anche differenze territoriali marcate all’interno del Paese. Nel Nord e nel Centro Italia, la percentuale di NEET è inferiore alla media nazionale, pur rimanendo più alta rispetto agli standard europei. Al Sud, invece, il fenomeno assume dimensioni critiche, con picchi superiori al 20% in alcune regioni, tra cui come detto, la Sicilia.
Questo divario riflette la persistente difficoltà delle regioni meridionali nel creare opportunità di lavoro per i giovani, accentuata da una minore diffusione di percorsi di formazione professionale e da una più lenta transizione scuola-lavoro.
Quali sono le conseguenze di un alto tasso di NEET?
L’Istat sottolinea che un’alta percentuale di NEET non ha solo implicazioni individuali, ma rappresenta un problema per l’intero sistema economico e sociale del Paese. La mancata partecipazione dei giovani alla forza lavoro porta a una riduzione del potenziale produttivo nazionale, con un impatto negativo sulla crescita economica.
A livello sociale, il fenomeno aumenta il rischio di marginalizzazione e disagio economico, con un numero crescente di giovani dipendenti dalle famiglie di origine e privi di prospettive di autonomia. Questo scenario contribuisce anche a un calo della natalità, già ai minimi storici in Italia, aggravando la crisi demografica.
Per invertire la rotta sarebbe necessario potenziare l’orientamento scolastico e universitario, fornendo ai giovani strumenti per scegliere percorsi di studio più in linea con le richieste del mercato. La diffusione di percorsi di formazione professionale e apprendistato potrebbe favorire una maggiore occupabilità, così come il rafforzamento delle politiche attive del lavoro, con incentivi mirati per le imprese che assumono giovani e programmi di formazione continua per chi è fuori dal circuito educativo.
L’Italia deve anche investire su un welfare giovanile più solido, che favorisca l’autonomia dei giovani e renda più agevole il passaggio dalla scuola all’età adulta. Il confronto con altri Paesi europei dimostra che soluzioni efficaci esistono e possono essere applicate con risultati tangibili.